NBA boycott e non solo, cosa sappiamo dei boicottaggi che hanno fermato lo sport negli USA
Boicottaggio NBA: cosa succede agli atleti che si sono rifiutati di giocare?
La sospensione dei campionati sportivi professionistici negli Stati Uniti è da sempre considerata un evento estremamente raro. In passato, tragedie come l’11 settembre o alcuni disastri naturali, come l’uragano Katrina dell’agosto del 2005 che colpì duramente gli stati del sud mietendo circa duemila vittime, portarono ad uno stop forzato delle attività agonistiche delle maggiori competizioni (maschili e femminili) di basket, football, baseball e calcio. Ma quanto accaduto con il boicottaggio degli atleti professionisti la scorsa settimana non ha precedenti.
Ciò che era impensabile fino a qualche tempo fa è diventato realtà nel weekend del 26 e 27 agosto quando i cestisti dei Milwaukee Bucks si sono rifiutati di scendere in campo per disputare gara-5 del primo turno dei playoff NBA contro Orlando. I Magic, a loro volta, si sono uniti ai Bucks nella singolare protesta, fermando di fatto la gara, prima che la federazione stessa decidesse di sospendere di conseguenza tutte le altre partite in programma in quel fine settimana. Contemporaneamente, i massimi dirigenti delle leghe WNBA, MLB e MLS, hanno optato per uno stop alle gare dei rispettivi campionati.
L’evento scatenante che ha costretto i Bucks ad agire in maniera così plateale fa riferimento a quanto accaduto a Kenosha, cittadina del Wisconsin, dove il 29enne Jacob Blake è stato raggiunto da diversi colpi di pistola dalla polizia locale in quella che è sembrata essere una immotivata escalation di violenza. L’incidente di Kenosha è stato solamente l’ultimo degli episodi di violenza che negli ultimi tempi hanno visto protagoniste le forze dell’ordine USA nei confronti di persone di colore (si ricorderanno le uccisioni di George Floyd e Breonna Taylor).
Poche ore dopo la protesta dei Bucks, tutti i giocatori NBA impegnati nei playoff della bolla di Orlando si sono riuniti per discutere circa la linea d’azione da seguire nei prossimi giorni. In un vivace incontro, i giocatori, con a capo la stella dei Lakers LeBron James, hanno discusso sull’opportunità di portare a termine comunque la stagione e, parallelamente, di invitare i vari proprietari delle squadre a fare di più per sensibilizzare l’opinione pubblica sull’argomento.
Tuttavia, l’essersi rifiutati di scendere in campo, a maggior ragione in occasione di un match importante come quello dei playoff, rappresenta un unicum all’interno della lega di pallacanestro più famosa (e ricca) del mondo. Come da statuto della federazione cestistica nordamericana, la mancata comparsa sul campo di gara per la squadra che decide arbitrariamente di non giocare, comporterebbe alla stessa una multa salatissima (fino a 5 milioni di dollari) e l’esclusione dal campionato. Tuttavia, poiché tale scelta è risultata essere di comune accordo tra tutte le franchigie della lega, il board NBA ha deciso di non applicare tale normativa, optando per il successivo recupero delle partite.
Così in MLB, MLS e WNBA.
L’onda lunga delle proteste in NBA ha coinvolto anche i giocatori professionisti di baseball della MLB, con alcune delle gare in programma lo stesso weekend che sono state posticipate in segno di solidarietà e vicinanza. A guidare la protesta in MLB sono stati alcuni tra i più famosi e pagati giocatori, come la stella dei Dodgers Mookie Betts che ha deciso di non scendere in campo, ricevendo subito il supporto dei suoi compagni di squadra. In passato, più che di vero e proprio boicottaggio da parte dei tesserati, in MLB (come, del resto, anche in NBA) le gare in calendario sono state momentaneamente sospese per via degli scioperi che hanno caratterizzato a più riprese la discussione sugli accordi salariali tra i giocatori e le proprietà delle squadre. Insomma, nulla a che vedere con quanto accaduto di recente. Analoghe proteste, infine, sono arrivate anche dai campionati della MLS, la lega calcistica nordamericana, e la WNBA, la lega professionistica di basket femminile.